Sono le ore 21.20 di un sabato sera piuttosto freddo: fuori nevischia, ma è gennaio non si può pretendere sole, caldo, e cieli azzurri.
Sto finendo di sparecchiare, fra meno di dieci minuti inizia un concerto a cui sono stato invitato. Vabbè mi dico, è un concerto organizzato dall’Associazione Latino Americana di Cremona, suonano due musici argentini, saranno ben in ritardo, son meridionali, dell’altro mondo pure, e così dicendomi proseguo a sparecchiare la tavola.
Arriviamo, con tutta la famigliola, alla sede dell’Associazione e già da lontano capisco che il concerto è iniziato: mi dico, che ormai i triti stereotipi del sudamericano perdigiorno, pigro, ritardatario non son più veri.
La sede del concerto si trova in un antico palazzo cremonese: da fuori fa una brutta impressione l’immobile. Vecchio di una vecchiezza decrepita, entrando le cose migliorano poco, ma, c’è sempre un ma, nell’urbanistica cremonese. Appena varcata la soglia si è immessi in un chiostro di forma rettangolare, molto bello. Al centro una magnolia, altissima, incurante del freddo e della neve, supera l’altezza dei due piani e sta lì come un gendarme silenzioso a presidiare l’antico spazio. C’è poca luce, siamo in tempi di crisi, un bombardamento è sempre in agguato e allora via le luci, ma torneranno, le luci, ma non ora, il lettore deve avere pazienza, ma prometto che le luci torneranno, ma dopo, più tardi.
Da quel che riesco a vedere capisco che anche l’interno del palazzo avrebbe bisogno di essere adottato da un’amministrazione più ricca generosa e amante dei propri possedimenti. Ma non vorrei buttarla sul politico, la musica continua ad invadere lo spazio semibuio, e ormai sono abbondantemente in ritardo.
Entro nella sede dell’Associazione a fatica, ci sono tantissime persone: alcune sedute, altre in piedi, in lontananza, vedo in un'altra stanza persone indaffarate a preparare cibo e bevande. Mia figlia viene subito "rapita" da due suoi amichetti che la portano nel chiostro alla ricerca del Feroce Scorpione. Son perplesso, son giochi di bambini, ma lo scorpione ha un pungiglione...poi dopo la piccola tornerà a ascoltare la musica e non si farà più distrarre dai baldi giovinetti.
Siamo in una stanza non grandissima con le volte a crociera altissime, la finestra coperta con una tenda rosso scuro quasi addossati al muro i due musicisti argentini entrambi, capirò poi nel corso della serata che gli argentini presenti sono la netta maggioranza fra il pubblico.
Mentre faticosamente trovo uno spazio i due musici finiscono il loro pezzo e la donna, che prima cantava, racconta che la serata è stata pensata per proporre al pubblico una parte di un programma musicale che la prossima settimana suoneranno a Siviglia.
Si tratta di un duo piuttosto particolare per la musica che esegue. La donna canta e suona la viola da gamba, l’uomo invece non canta, ma suona la chitarra e uno strumento a corde di cui non conosco il nome, simile ad una chitarra, con dieci corde e una cassa armonica molto più piccola di quella della chitarra classica a cui siamo abituati noi europei. Assomiglia al Cuatro venezuelano, ma come dice la parola stessa, non ha quattro ma bensì dieci corde.
Ma non è di questo che voglio parlare, voglio provare a dire qualche cosa di quel che accadde durante il concerto, di qualche cosa di magico che mi ha profondamente commosso.
La musica penso abbia avuto la funzione di predisporre il terreno ad una forma più sottile di ascolto, o forse di incontro.
Nella seconda parte del concerto, terminata la presentazione del materiale che verrà suonato a Siviglia i due musicisti si addentrano nel repertorio “tradizionale” argentino. E qui prende ad aprirsi la mente. Un primo momento di shock, ma ero in parte preparato, è dato dal semplice fatto che la donna canta e suona indifferentemente. Per chi come me viene dall’esperienza di ascolto della musica classica tradizionale sa che in genere, chi suona non canta e chi canta non suona, almeno durante i concerti pubblici. Il concertista è uno strumentista elettivo: o la voce o lo strumento, almeno nel classico.
Iniziano una serie di canzoni per voce e chitarra: tanghi e samba. Io mi dico, nel silenzio oscuro della mia mente, ma non lo faccio trapelare: ma il samba non è musica brasiliana, tutto ritmo, donne mulatte seminude, carnevale, e via discorrendo? La domanda rimane inevasa nella mia mente ma resta il dubbio. Vuoi vedere che il samba è argentino?
Provo a condividere il dilemma con il mio vicino di sedia, bisbilglio, farfuglio dallo sguardo compassionevole capisco che non è il caso di andare oltre.
Sono arie che si muovono fra dolenti lamenti amorosi, tenere aperture inespresse, violente passioni appena accennate. Il tango a me fa sempre questa impressione: forte passione trattenuta, come in attesa della morte che potrebbe arrivare da un momento all’altro. Ma è una mia impressione, che nel corso del concerto sfugge subito via.
Sfugge nel momento in cui la donna inizia a cantare, non capisco cosa dice, ma la mia attenzione viene catturata immediatamente. L’uomo la guarda come fosse una figlia, forse una madre che sta dicendo qualche cosa di molto importante. La guarda le mani appoggiate sopra la chitarra lo sguardo che non si scosta dagli occhi della donna. Poi lentamente le parole della donna vengono accompagnate dal suono prodotto dalle sue dita.
Sta pizzicando le corde della viola basso. Devo dire, caro lettore, che forse solo il violoncello ha un suono più bello e umano. La viola basso è la progenitrice del nostro moderno, si fa per dire, cordofono a quattro corde. Lei essendo la progenitrice di corde ne ha sei.
Ma questo non importa, importa che le dita sulle corde iniziano a parlare con la voce della donna: lui l’uomo continua a guardarla, in silenzio. Il dialogo fra la voce e le corde si fa sempre più inteso, sembra che abbia raggiunto l’acme e come per incanto, compare l’archetto. Ora le corde di budello sono sfregate, il suono diventa più roco, ma acquista in volume e modulazione. Ormai il dialogo fra la voce e lo strumento è un canto unico in diversa forma.
Sembra di essere precipitati nell’abisso, come quando da bambini si impara ad andare in biciletta senza mani, è magico tutto si tiene, fin che si tiene, a volte non si tiene e il bimbo si schianta. Questa volta no, tutto si tiene, ma il tempo non è ancora concluso, il canto della donna e della viola attende il suo uomo. Ed entra. Per me ascoltatore la magia delle “entrate” si ripresenta ancora una volta. Il tempo, la giusta tonalità, la giusta forza del pizzico delle corde della chitarra e la magia si ripropone. Penso sia una delle prime cose che un musicista che vuole suonare in gruppo deve imparare: è un attimo, l’abisso. Se lo cogli, penso, puoi continuare a volare. E l’uomo lo coglie, entra alla perfezione e prova a dire la sua a far sentire la sua voce.
Il miracolo si sta compiendo: la voce della donna, le sue dita sulle corde, l’archetto che sfrega i budelli e ora, infine, le dita dell’uomo. Pizzicano con virtuosismo controllatissimo le corde di nylon della chitarra: veloci arpeggi, poi alcuni accordi poi nuovamente degli arpeggi. Pochi secondi un tributo affettuosissimo al gioco d’amore che stava avvenendo fra la donna, la musica e il suo strumento.
Da questo momento si apre, almeno per me, una nuova porta. Il concerto smette di essere solo un concerto di musica e diventa qualche cosa d’altro.
Inizio a guardare gli occhi dei musicisti. So che usano lo sguardo per darsi i tempi delle entrate e delle chiusure, ma non basta, almeno questa sera, tale spiegazione. Nei loro occhi brilla una luce speciale, vedi caro lettore, che la luce arriva, ma non è ancora quella giusta, quella giusta la troveremo lontano da qui, in Israele, ma ora è ancora presto.
Inizio a vedere che gli sguardi dei musicisti si muovono fra loro ma non solo fra loro. La luce e le dimensioni della stanza permettono di vedere che lo sguardo dei suonatori si muove nello spazio, alla ricerca di altri sguardi, e a volte si interrompe pure: chi canta chiude gli occhi, penso sia un modo per entrare maggiormente in contatto con le sensazione corporee che produce la voce su chi la emette, ma non oso chiederlo, il vicino di sedia è molto assorto e penso di essergli anche antipatico.
Provo allora a seguire con il mio di sguardo lo sguardo dei musicisti ed inizio a ricostruire una trama di sguardi che si muove in tutta la stanza. Mi pare una cosa normale, mi dico, sono amici fra loro, sono musicisti, sono tutti argentini, sono lontani da casa, stanno suonando la loro musica, forse fra loro ci sono dei rapporti sentimentali, sicuramente ci saranno, ma tutto questo non mi basta, o meglio passa veloce nella testa, ma poi evapora.
La musica continua a dipanarsi, ma io mi sono perso nel tentativo di farmi portare via dagli sguardi. Sono quasi imbarazzato mi pare di violare un’intimità profonda che corre tra queste persone. Li invido stanno parlando, si stanno accarezzando coccolando forse, con la loro musica ed io non posso che guardare e godere di questa esperienza. Ma devo essere anche grato, mi hanno invitato a partecipare a questo loro concerto.
Vedo che lo sguardo si porta dietro la voce, molti di loro sillabano sottovoce le parole che la donna canta per tutti loro, per noi per se stessa, per la Musica, per la sua terra.
Sussurrano le parole, ma in modo appena percepibile, non si uniscono al canto della protagonista, semplicemente lo cantano silenziosamente, non siamo alla televisione o allo stadio, si tratta di un canto che ognuno, fa per sé, insieme all'altro, lasciando all’altro il compito di farsi sentire: e poi mentre cantano sorridono, si percepisce che la musica altera il loro viso, chissà quante altre volte si sono fatti trascinare dalle loro melodie…
L’ultima immagine è quella della donna che ha cantato per tutto il concerto, ora seduta fra il pubblico, al suo posto un’altra donna, giovane, presentata come una valente violoncellista, che però, per l’occasione userà solo la sua voce.
Ecco la prima donna fra il pubblico la guarda, muove le labbra ma le parole sono cantante da un’altra donna, la voce muta guarda la cantante con un’intensità che sembra quasi incontenibile, mi aspetto che si sciolga in un pianto dirotto, ma non accade, non siamo alla televisione. La cantante invece canta seduta, le mani strette fra le gambe, i capelli disordinatamente raccolti, gli occhi chiusi. Le due donne sono una sola donna e noi pubblico non possiamo che ringraziarle e con devozionale attenzione ascoltarle nel loro canto.
Esco nel chiostro e lo schiaffo secco del freddo mi percuote il viso, mi incammino verso casa pensando al concerto, a quel che è accaduto, a mia figlia che per circa un’ora è rimasta seduta ad ascoltare; spero per lei che sia stata rapita da quanto è accaduto in una stanza spoglia di un palazzo piuttosto fatiscente nel centro di una piccola città di provincia, dove tutti si lamentano che non accade mai nulla.
Mentre mi incammino verso casa rimugino questi pensieri e lentamente si accendono delle lucine nella mia testa. Mi dico che sarà il freddo, forse la fame, o forse sarà che ho fatto un patto con il lettore e gli ho promesso che si parlerà di luci.
Passeggio verso casa e mi torna alla mente un libro dal titolo ambiguo: Fuoco Amico. Si tratta di un romanzo di qualche anno fa scritto da Abraham Yehoshua.
Cosa c’entra con la musica argentina, lo sguardo le luci i miracoli?
Il libro racconta il viaggio compiuto dalla protagonista per andare a trovare il padre di un soldato israeliano ucciso dal fuoco amico durante un’operazione nei territori occupati. Tale viaggio è svolto durante la festa di Hannukkah o Chanukkah, la Festa delle Luci.
La memoria mi riporta indietro di quasi due mesi, quando ricevo l’invito per partecipare ad una festa. Chi mi invita è liutaia e violista israeliana, la festa in questione è Chanukkah: la festa delle Luci.
Seguo il filo, è tutta la sera che sto cercando di seguire fili, ma ancora non so bene dove mi porteranno.
La Festa delle Luci. Nel romanzo ricordo che i protagonisti, marito e moglie, lui in Israele, lei in Africa si sentono per telefono e si raccontano le loro vite accendendo ogni giorno per otto giorni le candele di Chanukkah.
Si tratta di una festa molto sentita, scoprirò poi, dalla viva voce dei protagonisti ebrei presenti alla festa: mi raccontano che durante Chanukkah, le scuole restano chiuse, i bambini fanno festa e ricevono dei regali, quello tradizionale era una piccola trottola di legno, ora immagino iPod, Ipad, Iphone e altre robine che ormai accompagnano le feste di tutti i ragazzi del mondo.
La festa ricorda la riconquista del Tempio di Gerusalemme nel 168 a.C. per mano di Giuda Maccabeo. In breve gli ebrei in quei tempi si trovarono ad essere sottomessi al volere e al potere di Antioco IV che impediva loro di professare le bibliche tradizioni, arrivando pure a profanare il grande Tempio di Gerusalemme consacrandolo a Zeus Nikeforos. Tale situazione portò il popolo ebreo alla rivolta e alla riconquista del Tempio. Dopo la vittoria si trattava di riconsacrare il Tempio e di riaccendere le luci della Menorah. Per fare questo serviva l’olio sacro, ma l’aspra battaglia, narra la leggenda, non aveva risparmiato che una sola ampolla di olio che avrebbe potuto durare solo ventiquattro ore. Avvenne un miracolo: la boccetta d’olio durò 8 giorni permettendo la riconsacrazione del Tempi secondo l’antichissimo rito talmudico.
Da allora gli ebrei festeggiano per otto giorni la riconquista del loro Tempio e della libertà di santificare il proprio Dio secondo i propri riti.
Il ricordo di questo miracolo si ripete ogni anno durante la festa di Chanukkah: ogni giorno per otto giorni viene accesa una candela, alla fine dell’ottavo giorno si celebra una festa, che i precetti ebraici suggeriscono di rendere pubblica.
Ecco, camminando per strada nel cuore della notte cremonese mi vengono in mente le luci delle candele di Chanukkah.
Tornando all’invito. La festa si svolge a casa di Yael. Sono molto curioso di vedere di cosa si tratta. Alla festa incontro persone già conosciute ma soprattutto ci sono alcuni ragazzi ebrei amici di Yael, tutti a Cremona per la comune passione per la musica e per la costruzione degli strumenti ad arco. La musica torna, gli strumenti ad arco anche.
Al centro del tavolo c’è la Chanukkià, un candelabro a 9 braccia tutte alla stessa altezza, come prescrive la tradizione, tranne il nono braccio “il servitore” quello che custodisce la candela con cui si accendono tutte le altre.
Vicino al candelabro le sufganiot, frittelle di farina lievito e miele, molto gustose. Ne mangio subito tre; sbaglierò mi dico, non si fa, ho infranto qualche regola sacrissima, e poi tre, cristosanto come la santissima trinità, in casa di ebrei, potevo limitarmi ad Una frittella. Chiedo subito scusa a tutti, mi prostro, ma non è nulla fortunatamente non sono in casa di haredim. Per vedere se è vero, me ne mangio subito altre tre!
Poi durante la passeggiata verso casa, dopo il concerto sudamericano, mi torna alla mente il momento più intenso della festa, che essendo festa di popolo ha le sue canzoni di popolo. Dopo un breve conciliabolo ebraico viene indicato un prescelto che avrà il compito di accendere la candela, l’ultima, l’ottava. Tale azione viene accompagnata da un canto.
Ascolto, vedo che anche qua, come là, nel chiostro cremonese, le labbra si muovono in sincronia, è una canzone che tutti sanno, le parole sono per me totalmente estranee, il suono dell’ebraico è totalmente estraneo, anzi a me ricorda il suono dell'arabo, ma non lo dico, non vorrei fare brutte figure.
Il ragazzo che canta mentre canta, si porta la mano destra sulla testa, la appoggia sulla sommità del capo. Vorrei interromperlo, vorrei chiedergli perché lo fa, cosa significa, ma i suoni delle parole mi fanno dimenticare la domanda. Sto in silenzio e lo guardo cantare. Mentre lo ascolto mi tornano in mente le immagini di ebrei vestiti di nero al Muro del Pianto che recitano la Torah mentre il loro corpo si muove ritmicamente, incessantemente i lunghi peot abbandonati sulle spalle.
Ascolto rapito, però, dal momento di intimità che ci è creato fra queste persone.
Mentre passeggio verso casa, dopo aver ascoltato gli argentini e aver “visto” la loro musica, ora mi trovo a ricordare un’altra musica, più antica, fatta di suoni forti, sconosciuti, mai sentiti e poi le luci che si accendono una dopo l’altra, un miracolo che si ripete da più di duemila anni, sempre uguale.
Chiedo agli amici ebrei cosa volessero dire le parole della canzone: sorridono, dicono che non lo sanno bene, non capisco, sembra quasi che siano imbarazzati, il solito goj curioso. Non insisto, forse il mistero deve essere preservato perché rimanga tale.
Mi trovo a pensare che lì in quella casa si è radunata tutta la comunità ebraica della provincia, chiedo se è possibile, mi guardano un po’ interdetti, arridaje il solito goj curioso, confabulano fra loro e poi concordano con me: lì in quella casa della piccola Cremona c’è tutta la comunità ebraica e io sono lì con loro, a festeggiare una festa che ha duemila anni di storia. Mi sento precipitare in un vortice.
Forse si tratta dello stesso abisso che mi ha colto tornado a casa dopo il concerto argentino. Vorrei mettere qualche parola per riempire l'abisso ma in questo momento lo sguardo non può e non vuole andare oltre. Lascio a te lettore l'arduo compito di illuminare l'abisso...
22 gennaio 2013
FILI DI LUCE
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1 commenti:
Ema continua a camminare, segui la luce...
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