22 aprile 2013

CICLOFATICA

Gettai nella rete queste parole circa un lustro fa, le rigetto in tandem con il post "Centini": buone letture.

Il primo atto che come umani compiamo è quello di nascere. Dico atto perché le ricerche hanno dimostrato in modo chiaro che il cucciolo umano durante il parto non è materia inerte che la madre con grande fatica “espelle” da sé, ma soggetto attivo di un gioco di squadra in parte geneticamente programmato.
Gettai queste parole nella rete circa cinque anni fa: in tandem con il post "Centini" le ripropongo: buona lettura.

Questo primo atto è un atto di transito, di movimento di attese e di improvvise accellerazioni. Ma è un atto che porta con se anche molta sofferenza e molto piacere almeno per i genitori, piacere che possiamo immaginare provi anche il nascituro che stretto nell’utero della madre deve cercare una via d’uscita per proseguire la sua vita.
Bene quest’immagine si è fatta strada nelle mia mente in seguito ad una discussione apertasi sul blog dei Los Lobos (Battesimi 13.10.2008).
Provo a sintetizzare le posizioni. Da una parte c’è chi dice che lo spirito con il quale va in bicicletta è uno spirito orientato al conseguimento del piacere: la via edonica.
Un altro fronte invece afferma che l’andare in bicicletta è un’attività che include la via edonica ma che non può prescindere dalla sofferenza.
Mi pare che le due posizioni estremizzino due approcci, che colloccherei all’interno di un continuum, nessuna delle due può forse essere data in modo puro ed assoluto.
Chi si colloca sul versante edonico, sembra essere, quasi spaventato che al piacere possa essere accostata la sofferenza (direi che si potrebbe parlare, per alcuni ciclisti, quasi di una perversione l’accostamento piacere sofferenza), mentre chi si colloca sull’altro versante tende a dare importanza a certi aspetti meno immediatamente riconducibili al piacere. Aspetti che a mio modo di vedere funzionano da mediatori del piacere, direi quasi da “costruttori” del piacere stesso.
Uso la parola sofferenza e non fatica perché mi pare che renda in modo più compiuto la complessità dell’azione dell’andare in bicicletta.
La fatica richiama ad uno sforzo che si compie ma viene in genere riferita ad un “lavoro” fisico.
Sofferenza ha nel suo etimo latino il germe che mina la soddisfazione edonica del piacere nel fare qualche cosa che ha dell’eversivo (dal punto di vista del piacere): procrastinare. Sub-ferre recita l’etimo latino: sopportare, senza questo passaggio mi pare che non ci possa essere piacere.
La mia provocazione nel dibattito sul blog dei Lobos va nella direzione di estremizzare e al tempo stesso meticciare le due posizioni. La dico in modo semplice: secondo me se si potesse escludere totalmente la sofferenza dall’attività ciclopedalatoria scomparirebbe l’attività ciclopedalatoria per come la conosciamo e probabilmente molto del piacere che essa ci regala. Come se si potesse pensare di evitare la sofferenza durante la nascita. Lo si può fare lo si fa ma l’esperienza che viene vissuta è un’altra esperienza; non meglio non peggio semplicemente un’altra esperienza; in natura la sofferenza del partorire è ineludibile sia per il pupo che per la madre.
Ma penso anche che una pratica ciclopedalatoria solo orientata alla ricerca della sofferenza possa per ovvi motivi mortificare irrimediabilmente qualsiasi piacere.
La pratica della bicicletta si fonda su di un atto solitario spesso agito in gruppo: tale condizione permette di utilizzarlo come veicolo di conoscenza di sé.
Ogni ciclista rimale libero di includere in questo atto più parti di sé, io per me includo sicuramente la sofferenza, ma certamente non è il mio fine e non è il solo elemento incluso.
Per me la sofferenza, entro un certo limite, rimane, nel pedalare, un fondamentale alleato da cui cerco di tenermi a dovuta distanza ma dal quale non mi posso distaccare completamente.

2 commenti:

spiedo ha detto...

Ghido fallo soffrire! Ha iniziato a sudare, ci siamo quasi....

ghido ha detto...

Il suo soffrire è sempre poco!